RICKY TOGNAZZI racconta gli anni ’90

DI RICKY TOGNAZZI, regista-attore

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)  a  cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera. Interviste alle principali personalità del mondo del cinema che restituiscono uno spaccato della società degli anni ’90.

Il mio rapporto con Roma? Sono d’accordo con chi disse che è “la città più brutta del mondo costruita nella città più bella del mondo”. Di fatto sono attratto dalla sua bellezza, dal suo fascino, ma provo disagio di fronte al suo disfacimento, alle sue brutture.
“Fernanda” ambientato nella cornice di Piazza Navona, “Piccoli equivoci” che rappresenta il tipico mondo dei teatranti romani, e “Ultrà” storia di ragazzi della periferia romana.

La città forse proprio per il rapporto contraddittorio che ci lega, è stata contenitore e contenuto dei lavori che ho fatto.
Roma è la mia attrazione fatale! È una città di gomma che assorbe tutto, ma che nello stesso tempo sembra non assorbire nulla. Ha dei ritmi mediorientali, ritmi ipnotici che ti conquistano nonostante tutto.

Cinecittà è la stessa cosa, assomiglia a Roma: è una struttura meravigliosa, in un posto bellissimo, che purtroppo per funzionare, come tutte le cose romane, subisce il peso della burocrazia, qualsiasi cosa si voglia fare prevede tempi lunghissimi. Il mio legame con Cinecittà risale agli anni ’60, quando andavo a trovare mio padre. Tutto era immerso nel verde, e per me entrare in quel mondo segreto e misterioso protetto da vigilantes rappresentava il massimo dell’avventura.

Tutto mi sembrava immenso: grandi teatri, porte gigantesche, costruzioni monumentali, lampade enormi, macchine da presa mastodontiche, era il periodo dei film mitologici. Poi sono tornato a Cinecittà per le mie produzioni, alcune scene di “Ultrà” sono state girate proprio nel quartiere che assedia ormai gli studi, men-tre con “Piccoli equivoci” abbiamo praticamente vissuto nel teatro di posa, dove “Patata”, il nostro capo-macchinista, ci preparava perfino da mangiare; anche il film “Piazza Navona” è legato a Cinecittà perché è nato allo studio “L”.

Il panorama di oggi è ben diverso, e la sensazione che si prova entrando nella città del cinema è, almeno per un addetto ai lavori, di tristezza; non è gradevole vedere i teatri di posa vuoti, sapere che stanno vendendo dei pezzi di Cinecittà che saranno probabilmente destinati ad accogliere supermercati, ed in tutto ciò le produzioni televisive si infiltrano sempre più sostituendosi ai set cinematografici.

Forse è giusto che il circo del cinema si stia modernizzando, e insieme alla tecnologia stia cambiando lo spirito e l’emozione che gli appartenevano; vero è che nonostante tutto resta viva sui set l’eterna legge del “non si può dire non si può fare”; sul set non c’è persona alla fine che non dia il massimo. Girando in esterni la situazione cambia, ti scontri con una realtà romana impossibile, ti sembra che la città odi il cinema, c’è un atteggiamento di paura e di ostilità verso un’attività considerata evidentemente inutile.

Il nostro è un lavoro che quando non è osteggialo è abbandonato a sé stesso, così come del resto accade per i monumenti, per i musei. Il cinema che deve ricreare una realtà nuova all’interno della stessa realtà necessiterebbe quindi di una grande disponibilità da parte delle istituzioni, della gente, e invece sei costretto a muoverti tra permessi impossibili da avere e una collaborazione generale del tutto inesistente.

E pensare che Roma, per le sue luci, i suoi luoghi, i suoi colori, potrebbe essere il set ideale per molti generi cinematografici: esiste una Roma barocca, una metropolitana, una di sapore orientale…In fondo conosciamo poco questa città, costretti a viaggiare sempre inscatolati nelle nostre macchinette riusciamo solo a sfiorare le cose meravigliose che esistono.

Un aspetto della città che mi affascina è il suo essere una specie di porto variamente colorato da entità multiregionali ognuna delle quali propone una diversa cultura, una diversa poetica, Roma è un grande mercato dell’arte che non può trovare la piena espressione di questa identità cosmopolita per la mancanza cronica di spazi d’incontro, di confronto. viste le condizioni tutto ciò che avviene a Roma ha un po’ del miracoloso, ribadendo la legge del set “non si può dire non si può fare” che io stesso ho potuto appurare essere rispettatissima, il carattere del romano o di chi sceglie Roma per viverci è in fondo costruttivo, voglioso di fare, per cui riesce ad ottenere comunque qualcosa nonostante l’inadeguatezza delle strutture della città, che non è collegata al circuito internazionale della cultura, e non ha neanche una cultura viva come altre grandi metropoli.

Da noi neppure il cinema riesce a mantenere il suo pubblico. I gestori delle sale non hanno avuto l’accortezza di rinnovarle, ma solo di venderle. Il pubblico è ormai abituato ad una tecnologia, anche domestica, di suono e d’immagine straordinaria, mentre quando si va al cinema si deve litigare con il direttore della sala che tiene bassa l’intensità della lampada del proiettore o non la cambia quando dovrebbe, perché così pensa di risparmiare e non si accorge che in questo modo rovina se stesso e il mercato del cinema, facendo scappare il pubblico che giustamente preferisce la comodità delle videocassette proiettate sui maxischermi di casa.

In questa situazione di vivibilità faticosa, causata da tutti i mali che fin troppo bene conosciamo, mi è sempre più difficile avere occasioni di incontro e di scambio. I pochi ormai più che consolidati rapporti di amicizia, comunque legati al lavoro, si preferisce coltivarli dentro le case pur di non farsi fagocitare dal traffico, il tutto a danno di un rapporto più vivo e stimolante con una città che ormai respinge anche i più affezionati estimatori.

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