VITTORIO STORARO racconta gli anni ’90

DI VITTORIO STORARO, autore della fotografia

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)  a  cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera. Interviste alle principali personalità del mondo del cinema che restituiscono uno spaccato della società degli anni ’90.

È indubbio che tutti quelli che hanno ruotato, ruotano e ruoteranno intorno alla possibilità di esprimersi per immagini, gravitano intorno a Roma; e in questo senso il cuore di Roma è Cinecittà, che a livello produttivo ed internazionale, possiede tutto quel tipo di struttura base ormai più che consolidata nel tempo e nell’esperienza.

Io sono uno dei più fedeli collaboratori di Cinecittà, non solo perché l’associazione di cui faccio parte ha sede all’interno dello stesso stabilimento, ma soprattutto perché lavorando spesso all’estero esporto, le acquisizioni tecniche, ed i mezzi di Cinecittà in tutto il mondo: “Pietro il grande” in Russia, “Dick Tracy” in America, il “The nel deserto” in Africa, “L’ultimo imperatore” in Cina.

Nonostante questo, è indubbio comunque che la potenzialità di Cinecittà vada sempre più ampliata verso la realizzazione di audiovisivi contemporanei, i responsabili interni dovrebbero adagiarsi meno sui frutti del passato e potenziare sempre più i mezzi espressivi di avanguardia.

La sofferta crisi del cinema degli ultimi anni di cui sento tanto parlare, credo che riguardi principalmente il cinema del passato, mentre penso che il cinema degli anni ’90 non sia affatto in crisi, essendo appena un infante, un bambino in crescita in continua mutazione.

Ricordo che da ragazzo mio padre mi diceva: “andiamo al cinema!”, senza scegliere uno specifico film. Lo spettacolo era il cinema in sé; oggi invece si va al cinema per vedere un certo tipo di film, l’intelligenza degli operatori economici e degli autori dovrebbe focalizzare meglio il genere di opera da realizzare per stimolare lo spettatore e fargli preferire per quella sera uno specifico spettacolo.

L’uomo avrà sempre bisogno di aggregazioni sociali, in pochi intimi o in grandi folle, e questo differenzierà le opere che avranno bisogno di un piccolo o un grande schermo. Essere ciechi all’evoluzione delle immagini e del suono è sciocco. Non si può progettare un’opera con dei vecchi sistemi e volerla collocare nel mondo di oggi.

Trent’anni fa c’era una città, oggi ce n’è un’altra; basta immaginare e pensare la città di oggi, e seguirne, reinventandolo, un diverso modo di vivere.

Da circa due anni lavoro a “Roma lmago Urbis”, un progetto cinematografico e multimediale allo stesso tempo sulle origini storico-culturali di Roma.

“Roma Imago Urbis” è un mosaico composto da 15 tessere, ognuna sviluppa un tema, dagli acquedotti, alle strade, agli spettacoli, agli dèi, al diritto ecc.…Partendo dal mondo greco-etrusco si arriva al mondo romano, lasciando intuire gli sviluppi che quella cultura ha avuto nell’età moderna, in una continua sovrapposizione di tempi, di cultura e di storia.
Lavorare a quest’opera mi ha permesso di conoscere più a fondo la città dove sono nato, dove ho vissuto e dove ho lavorato per tanti film.

Roma, per quanto si pensi di conoscerla, nasconde sempre nelle pieghe del suo manto altre gemme da scoprire. Come diceva Pavese una città ci vuole per potersene andare, ma anche per sapere dove tornare, e Roma è la mia città, qui sono nato e qui è avvenuta la mia formazione figurativa, per me è la città più bella del mondo.

La mia casa l’ho scelta “a metà strada”: su quel bordo che guarda sia la campagna che la città e tutto ciò che si allontana o viene dal mondo esterno verso essa.

In me c’è sempre una volontà diretta nell’atto di inserirmi nella città vera alla ricerca del percorso passato e presente della mia vita figurativa, e “Roma Imago Urbis” è una specie di traguardo professionale nella mia incessante ricerca sul rapporto tra l’oscurità e la luce, sui colori del passato e del presente.

Durante la lavorazione ho scavato come fa l’esploratore, l’archeologo, il ricercatore, indagando i luoghi più eclatanti di Roma come il Colosseo, e i più sconosciuti come la piccola bellissima Tomba dei Pavoni, nascosta sotto un garage.

Roma è un grande palcoscenico; ed insuperabile tra tutti nell’arte della rappresentazione è il Campidoglio, posto nel cuore di Roma: da lì tutto parte, e lì tutto torna, scendendo dal cielo, passando per Marco Aurelio, dal suo dito, dal cavallo, dalla piazza ai gradini. Ha l’ovale intorno, che con i suoi dodici raggi, rappresenta la struttura planetaria, e poi i tre palazzi con le dodici sculture, come dodici sono i mesi dell’anno ed i segni zodiacali, insieme alla statua della madre tetra che ha davanti a sé l’acqua, e a destra e sinistra il Tevere ed il Nilo che rappresentano la materia prima della vita, ma al contempo la diramazione della conoscenza attraverso il fluire, il movimento, il tempo, che è il fiume che scorre in questa piazza e scende dai giardini del palazzo irrorandosi come conoscenza, potere, diritto, in tutto il mondo per poi da tutto il mondo tornare a Roma, perché non si cresce mai in modo equilibrato da soli, e Roma ha contenuto in sé tutte le razze, tutte le lingue, tutte le conoscenze del mondo.

La piazza del Campidoglio rimane da sempre un luogo importante per me; ci andavo con la mia fidanzata (oggi moglie e madre dei nostri tre figli), ci sedevamo sui gradini, in un angolino a guardare quel momento magico di equilibrio tra il tramonto ed il sorgere della luna, e quella piazza mi dava un senso di benessere, di grande equilibrio, di pace.

Recentemente con occhio più cosciente, ci sono ritornato quando mi hanno chiesto quale luogo di Roma mi sarebbe piaciuto illuminare; Roma è illuminata a malapena per vedere dove si mettono i piedi, pur essendo una delle città più luminose di cultura è la meno illuminata d’Europa, la città non racconta attraverso il linguaggio della luce le ragioni essenziali di una piazza, di una facciata, di una statua.

L’illuminazione del Campidoglio non si è ancora realizzata, ma io continuo a sperare che un giorno qualcuno riterrà opportuno vestire di luce quella piazza così come è giusto che sia. Un altro problema di Roma è la difficoltà a realizzare opere cinematografiche in seno a quelli che sono i monumenti dell’arte e della storia, di cui noi non sempre siamo buoni custodi; mi sembra fondamentale che queste immagini debbano essere divulgate in tutto il mondo, e per di più un’immagine, gira più agevolmente di una statua. Sarebbe necessaria una seria riforma dell’organizzazione nella gestione dei Musei, troppe volte chiusi, con troppe sale inagibili per motivi mai veramente chiari; e come diceva recentemente Vittorio

Sgarbi, bisogna fare in modo che la gente possa andare a vedere un’opera d’arte così come decide di andare al cinema o a teatro, la sera, dopo il lavoro.
Purtroppo, da noi i musei chiudono alle 14,00 ed i custodi per non perdere tempo fermano le entrate alle 13,00; insomma non ci si rende conto del valore internazionale che hanno le opere che noi siamo chiamati a custodire.

Gli allestimenti privati di mostre offrono esempi di agili organizzazioni che le strutture pubbliche potrebbero provare a seguire.

Aggiungerei, inoltre, che Roma è molto poco collegata al circuito internazionale della cultura, e anche molto lontana dal fermento che si sente in città come Parigi, Londra, o New York.

Le nostre manifestazioni sia teatrali che musicali e cinematografiche sono purtroppo spesso legate alla sorte di un qualche personaggio politico che in quel dato momento, forse prossimo ad una elezione, se ne fa un fiore all’occhiello: è un male che andiamo a pagare noi tutti.

In questa città non si riescono ad impastare manifestazioni culturali a lungo termine, e invece le più importanti sono organizzate con molto tempo d’anticipo e spesso più spesso da organizzazioni private.

Credo che dovremo fare in fretta a scrollarci di dosso questa struttura che non ci aiuta, per lo più ci danneggia, e tentare di agire ad un livello più internazionale per non rimanere definitivamente esclusi.

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