GIUSEPPE PICCIONI racconta gli anni ’90

DI GIUSEPPE PICCIONI, regista

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)  a  cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera. Interviste alle principali personalità del mondo del cinema che restituiscono uno spaccato della società degli anni ’90.

A Roma ci sono venuto per amore…la ragazza che amavo abitava qui era ‘77. Frequentando la città ho cominciato a curiosare, a guardarmi intorno…La mia formazione cinematografica è stata inizialmente piuttosto disordinata, casuale, da spettatore e frequentatore di cineclub, non ho avuto la classica vocazione nata da bambino che poi diventa mestiere; la decisione è maturata piuttosto tardi, intorno ai 26-27 anni. L’occasione nacque dall’incontro con Renzo Rossellini, presidente della Gaumont Italia, industria a quell’epoca molto forte e presente.

Dalla frequentazione di Renzo Rossellini e dalla sua idea di mettere in piedi una scuola è scaturita una formazione intensa fatta di incontri, di visioni di film, di discussioni. Tutto è durato circa tre anni; la sede della scuola era à Cinecittà, in quel periodo molto attiva, e a noi studenti che frequentavamo i set capitava di fare anche le comparse; avevamo il privilegio di osservare dall’interno un’industria avendone quindi una conoscenza più concreta, meno accademica. Per me è stata un’esperienza fondamentale, se non ci fosse stata quest’occasione probabilmente avrei fatto. altre cose; ho avuto un periodo in cui per lavorare insegnavo, in me c’era una leggera forma di schizofrenia; frequentare la scuola della Gaumont è servito pian piano a farmi sentire nel posto giusto, mi ha legittimato ad andare avanti.

Nonostante fosse vista con sospetto, questa scuola ha invece prodotto risultati innegabili, non solo di registi, ma di direttori della fotografia, sceneggiatori, montatori, produttori. C’era sicuramente qualcosa di velleitario, ma finalmente! Dovevamo difenderci dalla cultura dello scoraggiamento che in Italia è sempre più forte di quella dell’incoraggiamento.

 A Cinecittà noi siamo entrati come degli ospiti non meritati. Lì c’era il lavoro, lì c’erano i segreti del cinema, ci vedevano un po’ come degli intrusi privilegiati. Chiunque era fonte d’insegnamento, macchinisti, artigiani, loro malgrado insegnanti preziosissimi. Non ho mai fatto la trafila dell’assistenza alla regia, perché fondamentalmente la ritengo una cosa noiosa ed abbastanza inutile, chi pensa di potersi esprimere attraverso il mezzo artistico che ha a disposizione deve provarci; saranno i risultati a stabilire la capacità di saperlo fare o meno.

Il mio rapporto con la città è legato al lavoro che faccio; fare il regista significa preparare, attendere, proporre, e gli interlocutori di chi fa questo mestiere, per la maggior parte, vivono a Roma. Quindi qui sei ‘nella città giusta. Ma è anche vero che inserirsi, entrare in modo legittimo nella grande famiglia del cinema è abbastanza difficile, ma forse lo è a prescindere da Roma.

Nonostante ci viva da quindici anni, solo recentemente la città mi ha ispirato diventando contenitore del film che sto preparando. Ma vedo in me come in altri autori, Mazzacurati per esempio, la volontà di sfuggire alla Roma nota. Certo in questo modo si rischia di cadere nel luogo comune contrario, forse ambientare un film al Colosseo, oppure a Fontana di Trevi potrebbe avere una grande originalità.

La cosa bella che ha Roma, ed in questo è unica, è la ricca offerta di frammenti di vita e di paesaggi architettonici estremamente varia; ti soffermi, ti guardi intorno e ti chiedi: qui dove sono?

Mi accorgo che tento di sfuggire la città perché ne ho un po’ timore, mi sembra quasi “sfacciata” nelle immagini, nelle parole; per me che non sono romano, che non sono dentro la sua storia, è sempre un po’ lontana, non la riconosco mai veramente, e i sopralluoghi fatti per questo film sono stati un’occasione per scoprirla. A parte queste considerazioni a me piace girare fuori, in trasferta perché, per forza di cose, dovendo frequentare gli stessi luoghi, si dà continuità ai rapporti che si stabiliscono nella troupes, il film lascia una specie di scia coinvolgente, si finisce col vivere un periodo di distacco dalla propria realtà contingente; mentre quando si gira a Roma prevale la sensazione di fare un lavoro, alla fine della giornata si stacca e ognuno torna alla propria realtà, c’è un momento di dispersione, il rischio di un continuo distacco.

Senza considerare i problemi delle produzioni, è diventata una città difficile da gestire: si riuscirà a posteggiare i furgoni? si potrà fare la presa diretta? E così la poetica spesso risente di scelte un po’ forzate. Il cinema penso che sia uno di quegli ambienti dove ancora nonostante le campagne di moralizzazione, persista gran parte dello stile e dei metodi del sottogoverno, credo che si richiedano a chi fa cinema troppe cose in più oltre alla capacità di fare dei buoni film, di saper scrivere delle buone storie. Parlo di un clima d’interferenza generale col lavoro creativo, di sudditanze, di necessità di aver a tutti costi interlocutori e protettori.

Molto spesso il cosiddetto cinema d’autore, che viene evocato come una estrema difesa nei confronti dell’invasione del cinema standardizzato, mi sembra abbia a sostegno un atteggiamento assistenziale, la difesa di un privilegio che molto spesso non ha motivi di merito, ma soltanto di luoghi comuni e di frequentazioni “politiche”; c’è una prassi che ‘tendenzialmente non valorizza i talenti e le energie migliori adatti a fare del cinema, ma piuttosto valorizza l’appartenenza ad ambienti, situazioni, famiglie, nomenclature.

Non credo alle etichette che vengono date al cinema, spesso se ne fa un abuso; ultimamente si parla molto di neo-neorealismo, ed il paragone con precedenti così forti ed illustri mi sembra fuori luogo. Del nuovo cinema non mi piace la finzione dichiarata, non simulata, lo scimmiottamento della realtà, del gergo, del comportamento giovanile. Per me è difficile capire come un film possa incidere sul sociale, magari vedo un film che ha questo obiettivo e crea discussioni, dibattiti; però non gli riconosco “valore artistico”.

Ci sono film che partono da un manifesto d’intenzioni di denuncia e poi magari sono grossolani nel taglio, nel racconto. Le dichiarazioni d’intenti non bastano, temo un cinema fatto per moda, che non nasconde nessun segreto, nessuna poesia, anche una storia d’amore può avere, ha delle valenze sui comportamenti quotidiani, che possono essere anche politiche.

Il film deve diventare altro, qualcosa che ha a che fare con il cinema oltre che con la realtà. Negli ultimi anni i film che hanno avuto un discreto riscontro, dei premi, sono scaturiti un po’ dal caso, fuori dalla progettazione dell’industria; il mercato si è accodato ed ha creato l’evento. Trovo sbagliato scegliere una storia da raccontare perseguendo fondamentalmente lo scopo del guadagno; così facendo spesso accade che i film hanno delle debolezze di passione, di fede, di entusiasmo.

Credo che gli imprenditori dovrebbero occuparsi più dei film che stanno per fare, piuttosto che di ingredienti e cose che molto spesso non assicurano affatto il successo. Il film è una cosa talmente vitale, imprevedibile. Oggi vige l’idea dell’appalto, della mediazione per cui su un film -ci sono troppi interventi, esiste sempre il rischio che se ne faccia una operazione che deve accontentare troppe persone. Avrei piacere che ci fosse una vera industria in Italia; non amo l’idea di un cinema marginale, e non credo che interessi nessuno.

Quando parlo di industria ne ipotizzo una che abbia meccanismi di lavorazione artigianale, io stesso facendo un film mi preoccupo di tutto, a volte sono anche eccessivo, sono attento a tutti i momenti della lavorazione, scriverei anche le frasi di lancio, e credo che sia un comportamento da artigiano.
Ho fondato, una società di produzione con Franco Bernini, sceneggiatore, che si chiama Achab Film; a mio avviso ci sono pochi produttori, uno di questi era Cristaldi, che si appassionano ad un’idea e la seguono fino in fondo, produttori che lavorano non contro un film ma per il film.

In Italia si ha la presunzione di avere un’industria del cinema ma i comportamenti non lo confermano, c’è frammentazione nelle decisioni, la Fininvest, il distributore, l’accordo con le coproduzioni, il funzionario, e di fatto non esiste una strategia. Prima c’era passione, oggi più attenzione agli affari ma senza strategia. E in tutto ciò mancano rapporti artistici, manca circolarità, incontro. Forse prevale l’idea che in un periodo di recessione il proprio successo passi attraverso il disastro degli altri, piuttosto che il successo di uno possa significare un momento positivo per tutti. Rientra un po’ nella cultura del sospetto di cui parlavo prima, dello scoraggiamento.

Mi augurerei che la sala cinematografica tornasse ad essere un luogo frequentato da più persone, da diversi strati sociali, da diverse fasce di età. Oggi il grosso del mercato è sostenuto prevalentemente da giovani, ci vorrebbe una differenziazione di mercati. Roma non ha un gran legame con il circuito internazionale della cultura, posso dire che nonostante io non sia stato un fanatico dell’estate romana, mi manca, siamo un po’ tutti orfani. L’immagine di Roma non sembra quella di una capitale, è diventata veramente molto povera, credo che a questo punto con il senno di poi si possa dire che, nonostante i difetti, l’”Estate Romana” ha dato molto alla città.

Per chi fa un lavoro creativo è un rischio vivere a Roma; bisogna difendersi, andare periodicamente fuori in altre capitali della cultura ad assorbire novità, Roma rischia di essere una città con pochissimi stimoli. C’è un po’ di pigrizia, mancanza di curiosità, si hanno pregiudizi reciproci, è difficile poter dire ad un collega amico “non mi è piaciuto il tuo film”, senza che questo significhi una rottura dell’amicizia.

Non so più se è un periodo di caffè come lo era una volta, oggi i caffè sono frequentati da persone che aspirano ad un’immagine, all’illusione di appartenere a non so cosa; ma nello stesso tempo mi domando se io non sono un po’ troppo spaventato dal senso di colpa che mi assale, quando, qualche volta, frequento una festa…forse sarebbe meglio esporsi alla possibilità di conoscere anziché restare chiusi nelle proprie sicurezze, e provare anche a divertirsi un po’; perché no!

La speranza che ho è di avere un controllo sempre maggiore sui film che faccio, spero di poter lavorare sempre più per il film piuttosto che per tutto quello che c’è intorno ad un film, avere più tempo per me, per le energie da dedicare al lavoro, c’è troppa fretta, ci sonò degli obblighi, delle circostanze che rendono tutto più faticoso. Io vivo a Roma per il lavoro che faccio, ma credo che Roma abbia anche la caratteristica di saper accogliere. Certo l’immigrazione la sta cambiando, spunta fuori il razzismo in una’ città definita da sempre aperta, comunque questo coacervo di situazioni la rende paradossalmente vivibile. Anche se spesso dico di voler andare a vivere in campagna, in realtà sento il bisogno di questa città, incredibilmente, forse comincio ad appartenerle, mah!

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