Christian Boltanski e il tempo

DI SERGIO MARIO ILLUMINATO

Il tempo lo si può misurare soltanto in maniera indiretta, e il susseguirsi di una sequenza di movimenti, spostamenti, modifiche, su corpi, oggetti, paesaggi, lascia la sensazione dello scorrere di questa forza invisibile. Significativa appare la ricerca di molti artisti contemporanei che nel loro lavoro hanno provato non a rappresentare ma a presentare il tempo: osservandolo, marcando, sospendendo, condensando, o allungando il suo flusso.

La ricerca di CHRISTIAN BOLTANSKI è una partita a scacchi con il tempo, persa in partenza.

L’artista francese scrive: “Le domande importanti sono poche e una di queste è: perché non possiamo fermare il tempo? Io cerco di preservare il tempo, il ricordo, ma fallisco tutte le volte, consapevolmente. Sull’isola di Teshima, in Giappone, ho raccolto le registrazioni di migliaia e migliaia di battiti cardiaci di singole persone. Ma loro non sono e non saranno mai lì. Presto quell’isola sarà solo un archivio di fantasmi. Ognuno è unico, ma destinato a sparire velocemente“.

Un lavoro basato sulla morte, sull’incapacità di definire le cose e il tempo che inesorabilmente fluisce e in cui la memoria e il ricordo divengono i segni, le tracce, del fragile e instabile passaggio dell’uomo. Combinando la memoria individuale e collettiva con una riflessione sempre più in profondità su riti e codici sociali, Boltanski sviluppa da mezzo secolo un’opera sensibile e corrosiva, come uno stato di veglia lucida sulle nostre culture, le loro illusioni e disillusioni.

Un lavoro lungo fino ai giorni nostri dedicato alla dimensione temporale, al trascorrere del tempo e alla sua percezione: non sviluppo storico, ma fragile e instabile passaggio, fine inesorabile e scorrere decadente. È la sensazione del passaggio, della precarietà effimera dell’esistenza, è la domanda insoluta sul senso della nostra presenza. Il tempo – che siano pochi giorni o una vita intera – avvalora l’intento di documentare la realtà quale essa sia, comune, quotidiana, ripetitiva, assumendo il sapore della Memoria.

Sin dai suoi inizi nel 1967, Boltanski ha esaminato attentamente la vita degli uomini e cosa che rimane dopo la morte, dopo che hanno avuto il loro giorno. Usando l’inventario e l’archivio, utilizza gli album fotografici veri o fittizi come ricordi infanzia, un tentativo di ricostruire la vita degli esseri catturati nell’anonimato della loro scomparsa. Attraverso “piccole storie”, l’artista mette in evidenza tutti e nessuno, e si concentra nella creazione di una fragile e inquietante memoria collettiva dell’umanità.

L’effimero governa tutto il lavoro e l’uso di elementi dedicati a conservazione, come le scatole di metallo o delle vetrine, diventa un vocabolario ricorrente al centro delle sue prime opere. La pratica di Boltanski riconcilia così la banalità di ogni azione con il desiderio di permanenza e conservazione propria di tutte le civilizzazioni. Attesta anche la determinazione con cui l’arte cerca di afferrare la vita e combattere l’oblio.

L’arte di Boltanski è prima di tutto un’arte del passare del tempo. Dal 1984, le sue opere si staccano dall’ironia e diventano più cupe, più scure; tendono a mostrare, quasi in modo corale, le strutture artificiali per affrontare la morte. Gli anni ’90 hanno visto il suo lavoro spostarsi sempre più verso la ricerca di miti e leggende attingendo dall’immaginario collettivo.

Nei suoi lavori più recenti, Boltanski esplora la fatalità e mette in discussione “la possibilità” costruendo dispositivi in cui la vita diventa sempre più una lotteria. Ancora più vicino a noi, le immense installazioni immersive dell’artista si confrontano con gli spazi alla fine del mondo, dove egli ama andare, in questo caso la Patagonia, cercando miti sepolti che diventano il supporto delle sue stesse installazioni. “L’arte è un artificio, una bugia. Ma è fatta per porsi domande e dare emozioni. E questo ha a che vedere con la verità”, spiega Boltanski.

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