FRANCESCA ARCHIBUGI racconta gli anni ’90

DI FRANCESCA ARCHIBUGI, regista

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)  a  cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera. Interviste alle principali personalità del mondo del cinema che restituiscono uno spaccato della società degli anni ’90.

Sono romana e amo moltissimo la mia città, così come amo, forse per il fatto di esserci andata praticamente a scuola, Cinecittà.

Roma non è solo il luogo dove tecnicamente svolgo il mio lavoro, ma è principalmente il luogo dell’ispirazione, è il bacino antropologico, nel quale colloco i personaggi dei miei film. Quindi Roma ha una fortissima valenza poetica per me che giro sempre dal vero e a Roma.

Il momento dei sopralluoghi è bellissimo, me ne vado a spasso con la macchina fotografica appesa al collo, diventa avventuroso come se partissi per l’Africa, Roma riesce sempre a darmi sensazioni nuove. E per Cinecittà nutro sentimenti molto simili, il Centro Sperimentale di Cinematografia dove sono andata a scuola è lì davanti, e con il Centro Cinecittà ha un rapporto tecnico molto stretto: lo sviluppo e la stampa; ed io ho sempre cercato di infilarmi nei laboratori; infatti, la parte tecnica dei miei studi l’ho appresa tutta lì, dal vero.

Cinecittà è un po’ il simulacro del modo di vivere a Roma, non parlo solo della struttura che trovo bella, l’urbanistica fascista era migliore di quella democristiana, ma è il simulacro di Roma nel modo di lavorare, come non notare frequentandola l’atmosfera di sfaccendamento?

Ma insieme a questa dimensione, ne convive anche una fortemente artistica, in genere a Cinecittà quelle che lavorano accanto a te sul set sono persone dotate di grandissima sensibilità cinematografica, grazie alla quale sopperiscono alla non sempre puntuale professionalità. Per esempio, il successo del mio saggio di diploma lo devo anche all’intuizione geniale di uno stampatore di Cinecittà; avevo ambientato il film nel ’45 e volevo dargli un’atmosfera particolare, da un’idea comune a me e al direttore della fotografia, mio collega del Centro con il quale ho fatto poi tutti i miei film, per ottenerla avevamo scelto un particolare procedimento, di decolorazione della pellicola, detto N.R., che però il Centro non poté finanziare perché troppo costoso, ed ecco la trovata di genio: lo stampatore ci fece venire al laboratorio di lunedì mattina, a macchine ancora fredde, inventando così un processo di N.R. alla “peciona”, con l’acido freddo. Fu un’esperienza emozionante, l’ottimo risultato potemmo ottenerlo grazie al fatto che il film durava solo venti minuti, e quindi le macchine non avevano avuto il tempo di scaldarsi.

A quella trovata devo molto della riuscita del mio saggio che partecipò a molti festival, vincendone anche qualcuno. Rispetto ai miei colleghi del Centro il saggio mi mise subito su un altro piano: avevo cercato di dare un segno poetico, fortunatamente avevo trovato persone disponibili, e la loro gentilezza è stato quel qualcosa che è rimasto.

Tornando ad oggi devo ammettere che girare a Roma un film è diventato difficilissimo per problemi di permessi, logistici, per cui tante volte si preferisce andare a girare in provincia storie inventate su Roma. Io comunque non demordo e anche se la giornata di lavoro è una vera e propria lotta, preferisco continuare a girare nella mia città. Lavorando a “Mignon è partita” mi sono resa conto di aver come rubato molte cose; per poter vedere la città ero obbligata a mettere la macchina da presa ad un’altezza che scavalcasse le automobili; quindi, molte inquadrature sono un po’ picchiate sui personaggi, soprattutto da lontano, su Giorgio, sui ragazzini: dovevo scavalcare le macchine per vederli.

Questa difficoltà mi ha imposto un modo di girare, è diventata stile, siccome sono ottimista, penso che qualche esegeta attento, tra cinquanta anni evidenzierà che i film girati in città in esterni avevano tutti la macchina da presa alta.

Roma è una scenografia indispensabile per i miei film che hanno tutti una forte identità di quartiere: Mignon è partita l’ho ambientato al Flaminio perché volevo rappresentare una certa piccola borghesia, di tipo intellettuale, e secondo me i suoi personaggi non potevano che vivere al Flaminio; l’altro film “Verso sera” l’ho ambientato ai Parioli, il quartiere prima di diventare per antonomasia negli anni ’60 ricovero dei fascisti, negli anni 50 era abitato da intellettuali di sinistra, ci vivevano i D’Amico, i Pincherle, gli Amendola; molti artisti preferivano i Parioli perché era un posto un po’ scostato dalla città.

Ho voluto riprendere questa antica tradizione facendo rimanere a vivere il protagonista del film nel villino di famiglia, nonostante il quartiere stesse cambiando intorno a lui.
Sono convinta che oggi è mutata profondamente l’identità di Roma. Negli anni scorsi la città era più collegata al circuito internazionale della cultura di quanto lo sia ora, mi sembra che questo primato ormai spetti a Milano.

A Roma non abbiamo neanche un auditorium al di là del “Santa Cecilia”, è scandaloso, gli stadi possono andare bene per Luca Barbarossa, Miles Davis per i suoi concerti veniva buttato non si sa bene dove. È difficile che passino spettacoli interessanti di teatro, viene da pensare che forse la personalità culturale di questa città è Lando Fiorini! Scherzi a parte a Roma ci sono degli scrittori, degli autori, degli artisti molto interessanti, ma in questa difficile condizione logistica i rapporti con i colleghi, i collaboratori, in genere coincidono con i rapporti di amicizia, ci si vede la sera da qualcuno, o in occasioni di inaugurazioni, ma non c’è una vera interdisciplinarità artistica, qualcuno ci prova, ma non esistono luoghi dove potersi incontrare. Però un posto così sarebbe bello inventarlo.

Roma per me sta diventando sempre più una buccia scenografica, mi accorgo che cerco di stare quanto più è possibile in campagna, nonostante la ami moltissimo certamente se ho un problema di salute non vado in un ospedale di Roma. Queste cose poi pesano come volta celeste per l’arte, danno un senso di sfiducia, e man mano, inevitabilmente si scrivono delle storie in cui la città non è più una madre, ma è una nemica.

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