Suzanne Pagé per MARK ROTHKO 1903-1970 Fondation Louis Vuitton

Suzanne Pagé, curatrice dell’esposizione

Prefazione (Tratta dal catalogo dell’esposizione)

Come dire ciò che non può essere espresso eppure si avverte così intensamente? Come introdurre con le parole un’opera che ha portato alla sua incandescenza la pittura, linguaggio irriducibile a qualsiasi altro? Cosa cerca il visitatore, prigioniero di ciò che parla così forte ai suoi occhi, al suo cuore, a tutto il suo essere? Cosa cerca incessantemente l’artista stesso che rare foto mostrano nell’atelier scrutando instancabilmente i campi colorati ai quali ha ridotto gradualmente le proprie tele? Perché, ancora oggi, quest’opera ci appare così necessaria nella sua urgenza senza tempo nel richiamare la condizione umana, questa poignancy nascosta nel profondo di ognuno, come Rothko la vuole al cuore della sua opera, ricorrente anche nei suoi appunti?

Robert Motherwell ha intrattenuto fin dalla metà degli anni ’40 con l’ombroso Rothko un dialogo incessante fondato su un’angoscia metafisica comune sfrenata. Dopo la scomparsa dell’artista, ha dichiarato che “il suo vero genio è stato quello di creare un linguaggio del sentimento “evocando nelle sue opere” una luminescenza che proviene dall’interno e non dalla luce del mondo”. L’arte astratta trovava allora una dimensione insospettata per esprimere, secondo Rothko stesso, le emozioni umane fondamentali. Questo è ciò che motiva oggi la realizzazione di questa esposizione.

Proveniente dal MoMA, la prima presentazione delle opere di Rothko a Parigi nel 1962, accolta nel sotterraneo del MAM, era stata un disastro male accolto dall’artista. Dora Vallier ne ha dato testimonianza visitando, in solitaria, le sale chiuse dove il gelo aveva preso il sopravvento. Nel 1999, nello stesso Museo, l’accoglienza è stata trionfale per un pubblico ipnotizzato che ha scoperto l’artista ancora e ancora. Per cercare cosa? Trovare cosa?

La nostra esposizione si apre nella Galleria 1 con il suo unico autoritratto risalente al 1936. Silhouette massiccia, questa figura impressionante e grave ha lo sguardo nascosto dietro occhiali scuri. Impenetrabile, sembra concentrata su una visione totalmente interiore che non rivela nulla dell’uomo o del pittore. Il percorso si conclude nella Galleria 10 su una “Cattedrale” nera e grigia, delimitata da sculture di Giacometti, artista ammirato e con cui condivideva, con un dubbio logorante, l’umanesimo e la scienza dello spazio. Nel cuore dell’esposizione, le opere astratte del periodo cosiddetto “classico” – dagli anni ’40 in poi -, in cui un colorista unico si impone nell’irraggiante e misterioso splendore di un colore spinto all’incandescenza. Questo è il periodo più conosciuto, e sarà particolarmente ben rappresentato qui – Gallerie 4-11 – con circa settanta opere, tra cui due installazioni eccezionalmente riunite, quella della Phillips Collection a Washington e quella dei Seagram Murals provenienti dalla Tate.

Più in generale, questa retrospettiva ha l’ambizione di introdurre all’intera opera, dalle prime tele figurative e di penetrare, attraverso le rotture formali, la permanenza e la profondità di una stessa ricerca, di un medesimo interrogativo.

Nato Marcus Rotkovitch e avendo lasciato la sua Russia natale all’età di dieci anni dopo un passaggio per la scuola talmudica, l’artista non smetterà mai di nutrire la sua pittura di letture e riflessioni sull’arte e sulla filosofia. Dopo aver lasciato Yale dove aveva ricevuto una formazione intellettuale – dalle materie scientifiche all’economia, dalla biologia alla fisica, dalla filosofia alla psicologia, alle lingue… – e aver già manifestato attraverso un diario un impegno sociale costante e legato a una volontà costante di espressione. È nella Scuola della vita che si sperimenta successivamente prima di essere brevemente tentato dal teatro. Scoprendo fortuitamente la pittura all’Art Students League nel 1923, vi tornerà soprattutto accanto a Max Weber e poi ne diventerà membro per lasciarlo nel 1930. Sarà naturalizzato nel 1938, adottando due anni dopo il nome di Mark Rothko.

La nostra esposizione, globalmente cronologica, inizia in questi anni, dopo alcuni tentativi di paesaggi e l’incontro significativo con Milton Avery nel 1928. È un clima di crisi palpabile a New York in quegli anni in una serie di tele figurative dai colori cupi, focalizzate su alcuni nudi, interni e scene urbane, in particolare la metropolitana dove spazi chiusi e coercitivi circondano figure anonime e solitarie, allungate e bloccate nello spazio architettonico, come impedito. Mentre si rende conto dell’impossibilità di esprimersi attraverso la figura umana senza mutilarla, la sua mente esigente lo porta a trovare un’altra strada. Approfondisce quindi la sua riflessione attraverso la stesura di un manoscritto incompiuto e mai pubblicato durante la sua vita, La Realtà dell’artista, testimoniando la sua costante preoccupazione di chiarire, per sé e per gli altri, il significato dell’arte come linguaggio dello spirito.

Negli anni ’40 e in un contesto internazionale drammatico, la sua opera evolve. Con altri artisti, Rothko si pone allora la cruciale domanda sul “soggetto” della pittura nella sua dimensione tragica e senza tempo, attraverso miti unificanti, presumibilmente universali. Grande lettore di Nietzsche, La Nascita della tragedia, e del teatro di Eschilo, troverà in essi un repertorio di carattere mitologico. Il risultato è una immagine deformata degli eroi arcaici trasformati in mostri dai corpi ibridi, divisi, lacerati e smembrati. Per Rothko, ossessionato dal ricordo segreto dei pogrom della sua infanzia, ciò crea un’eco intima, che si interseca con la dilagante informazione sulla Shoah. L’animalità in sé e una certa fantasia espressa in queste opere hanno anche un’influenza surrealista, percepita attraverso gli intellettuali e gli artisti europei che arrivarono a New York e le loro opere presentate durante una mostra storica al MoMA nel 1936 – Ernst, Chirico, Miró… – alcuni  dei quali frequentavano anche Peggy Guggenheim. Notiamo poi nei dipinti di Rothko una fluidificazione degli spazi e delle forme vegetali e animali dove piante e uccelli, totem e “organismi” vanno alla deriva negli spazi sottomarini secondo la divisione spaziale in zone differenziate che diventerà una costante. I titoli, che scompariranno, spiegano contenuti la cui evoluzione punterà presto a una maggiore chiarezza, verso l’eliminazione di ogni ostacolo tra il pittore e l’idea, tra l’idea e lo spettatore.

Gli anni 1945-1949 vedono realizzarsi una decisa evoluzione verso l’astrazione con dipinti liberati dal cavalletto classificati come “Multiformi”. Campi cromatici indefiniti sono invasi da elementi biomorfi, il colore in strato sottile sostituisce ovunque il disegno in spazi fluttuanti e trasparenti. 

Poi, a cavallo degli anni ’40, arrivano le cosiddette opere classiche, icone che sono diventate parte della sua identità. In un campo cromatico ingannevolmente monocromo o ad alto contrasto, forme rettangolari di colore radioso dai bordi indefiniti sono disposte, di solito verticalmente, in un ritmo binario o ternario. Qui, attraverso molteplici strati traslucidi – tra dilatazione e concentrazione, opacità e riflessione, superficie e profondità – si giocano infinite variazioni di toni, valori, accordi e dissonanze, mantenuti in movimento o abilmente risolti in opere sgargianti in un apogeo cromatico. Misterioso e magico, un tocco atmosferico si impadronisce dell’intero spazio, e l’emozione è lì.

Quando i formati diventano più monumentali, lo spettatore si immerge in modo coinvolgente. Voglio creare uno stato di intimità, una transazione immediata. I grandi formati ti portano dentro. Questo è in parte il risultato del fascino che lui, come Avery, ha provato per L’Atelier rouge di Matisse, recentemente acquisito dal MoMA, dove uno spazio popolato da oggetti è unificato dal colore monocromatico e portato sul piano, fino al punto in cui si diventa quel colore. Questo era anche ciò che Rothko cercava a metà degli anni Cinquanta (1954-1957), quando comunicò a Duncan Phillips il desiderio di presentare tutti i suoi dipinti separatamente nel suo museo, in uno spazio dedicato, saturo di ocra e rosso mescolato al grigio, che desse al suo Collezionista la sensazione di essere assorbito in un “benessere improvvisamente oscurato da una nuvola” – Galleria 7. 

All’epoca, l’artista temeva un approccio decorativo al suo lavoro e rifiutava persino di essere chiamato “colorista”, sostenendo che la luce andava oltre il colore. Tuttavia, sapeva che la sua arte viveva e respirava e Rothko era consapevole del potere sensuale delle sue opere, che accettava come un rapporto di piacere con le cose che esistono. Riconosceva anche il loro impatto emotivo, ma ci teneva a chiarirne la natura: a chi pensa che i miei quadri siano sereni, vorrei dire che ho imprigionato la violenza più assoluta in ogni centimetro quadrato della loro superficie.

Che cos’è dunque che realmente afferra il visitatore, prigioniero dell’irresistibile seduzione di queste opere i cui effetti riflessivi contribuiscono a intrappolarlo, anche quando l’artista parla di lacerazione, o addirittura di cataclisma ? È in questa profondità che Rothko ci raggiunge. È all’opera nei Seagram Murals, 1958-1959, la cui interiorità meditativa è servita da una gamma di colori più scuri. Rispondendo a una commissione, questo insieme era destinato a soddisfare il desiderio di Rothko di creare un luogo con le sue sole opere, in uno spazio e in un ambiente che egli stesso padroneggiava pienamente. Il gruppo di nove opere qui presentato – l’intera Rothko Room della Tate nella configurazione prevista dall’artista – era stato originariamente commissionato per una sala da pranzo progettata da Philip Johnson in un edificio di Mies van der Rohe.

Rothko alla fine rinunciò, rendendosi conto che il contesto non era decisamente lo stesso che stava cercando di ricreare nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, che aveva visitato una volta.

Punteggiando il campo di immersione, il rettangolo scompare a favore di un segno più o meno aperto dove avremmo potuto vedere un portale, una soglia o un anello. Il colore assume una nuova gravità. Una gamma di rossi e marroni prende il sopravvento, con un’intensità attenuata, mentre il rapporto con l’architettura si accentua, dando allo spettatore un carattere contemplativo. Questi due parametri troveranno la loro finalità trascendentale nella Houston Chapel. Il tono interiore dei Seagram Murals ha inizialmente attratto John e Dominique de Menil, che hanno commissionato la cappella che volevano realizzare. Alla fine hanno accettato la proposta di Rothko di creare uno spazio specifico e globale che coinvolgesse l’architettura stessa creando una pianta ottagonale con luce naturale filtrata. Al termine di questo progetto, che lo mobiliterà completamente per circa tre anni tra il 1964 e il 1967 in un enorme studio, l’artista dichiarò di aver imparato ad andare oltre se stesso, fino a un punto che riteneva impossibile.

Chiunque abbia avuto l’opportunità di fare questa esperienza ne è rimasto segnato per sempre. Rompendo con lo spazio secolare, egli è inizialmente colto dall’oscurità, i colori – prugna, nero, violaceo – emergono gradualmente senza rivelare nient’altro che ciò che il visitatore gradualmente – come deliziato – scopre in se stesso attraverso un incontro ad alta intensità.

In questa linea decisamente più austera, appaiono le tele nere e grigie (1969/1970) della Galerie 10, punteggiate da sculture di Giacometti come Rothko aveva immaginato di presentarle nell’ambito di una commissione per il nuovo edificio dell’UNESCO a Parigi. La scala è complessivamente ridotta e le superfici sono delineate da un bordo bianco, creando una certa distanza che rende più facile guardarle che seppellirsi in esse. Questi dipinti, con le loro pennellate turbolente, sono chiaramente strutturati in due zone contrastanti di toni neri, marroni e grigio-blu, separate da una linea continua.

La sobrietà e l’apparente uniformità di queste opere seriali erano inizialmente incomprensibili. Riconsiderate oggi, le interpretazioni biografiche un po’ sommarie legate alla salute e allo stato depressivo del pittore sono superate. Qui, in risonanza con le sculture di Giacometti, conferiscono una densità e una solennità tutta di tensione in cui possiamo ritrovare in modo rinnovato anche la pregnanza voluta da Rothko.

Dal punto di vista del proprio lavoro, la marcata preferenza di alcuni artisti contemporanei per queste ultime opere evidenzia il loro avanzamento estetico, aprendo loro le vie radicali di un’arte minimale che rompeva così con l’espressionismo astratto.

Nella vicina Galerie 11, invece, sono di nuovo esposti i colori vivaci dei dipinti classici e le tele a olio e acrilico (1967-1970), che smentiscono un’interpretazione troppo psicologizzata dell’uso del colore da parte dell’artista.
Queste interpretazioni contrastanti e sempre intense sono al centro dell’esperienza personale del visitatore di questa mostra. Cosa cercava? Cosa trova?

Per gli artisti di ieri e per i visitatori di oggi, di che tipo di esilio è segno quest’arte? Qual è la ricerca che si cela nel profondo di ognuno di noi?

Lo stato di ipersensibilità nato sulla superficie dei dipinti e sviluppato dalle opere – come per un eccesso di bellezza – suscita e acuisce contemporaneamente pienezza e incompletezza. Nello stesso momento in cui il piacere sensoriale si decuplica, si crea un’aspettativa, seguita da domande sul trascendente a cui queste opere danno accesso. Ognuno troverà le proprie parole, serafiche o tragiche. Rothko non sceglie tra la beatitudine e il nulla che deriva dall’essere mortali. Se le persone vogliono esperienze sacre, le troveranno; se vogliono esperienze profane, le troveranno.

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Consapevole della responsabilità che comporta oggi una mostra su Rothko e della difficoltà di riunire opere rare ed estremamente fragili di un artista così fondamentale, ho deciso di coinvolgere Christopher Rothko, figlio dell’artista e custode dell’eredità Rothko, che ha espresso particolare soddisfazione visitando la mostra al MAM2. Questa collaborazione avrà permesso a ciascuno di noi di portare a termine la propria missione.

La mostra è stata oggetto di un’intensa riflessione, tenendo conto dei desideri espressi più volte dall’artista e interpretati nello spazio, con gli architetti e i collaboratori che hanno lavorato per soddisfare il desiderio di Rothko di dare allo spazio la massima eloquenza e intensità possibile.

La mostra di un artista per il quale la musica era fondamentale – Mozart, Schubert… – e che voleva portare la pittura allo stesso livello di intensità della musica e della poesia, sarà l’occasione per una creazione eccezionale del compositore Max Richter ispirata all’opera di Rothko.

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