Fuori Programma, Dentro la Vita: danza e vulnerabilità nel cuore di Roma

DI SERGIO MARIO ILLUMINATO

Esci dal lavoro con addosso il peso della giornata. I pensieri pesano come un sudore che non si asciuga, la schiena è irrigidita, i piedi vorrebbero fermarsi e invece continui a camminare, verso il Teatro India, nella cittadella dell’ex fabbrica Mira, sulle rive del Tevere. Un posto che un tempo trasformava sapone e oggi plasma corpi, incontri, mondi in movimento.

Il sole scivola lento dietro Roma. La città si prepara alla sera con ristoranti e dehors ovunque, mentre gli spazi dell’arte si stringono. L’aria grava, densa di altro oltre il caldo. Cerchi di staccarti da ciò che hai lasciato – istituzioni invisibili, un quotidiano sfilacciato – e ti avvicini a qualcosa di nuovo, ancora da scoprire.

È estate, è Roma, è Fuori Programma.

Ti siedi a un tavolino, con una birra in mano, cercando di sciogliere quel nodo alla gola che ti trattiene dopo un anno di troppe ombre: guerre, poteri che schiacciano, diritti strappati. Intorno, altre presenze si raccolgono, stanche anche loro, senza mappa, in cammino. Qui non conta chi sei, critico o spettatore occasionale. Il corpo reclama contatto, pulsa, si apre al passaggio. Forse solo questo ci tiene a galla.

Seduto su una sedia bianca, tra il palco e le zanzare, aspetti. Anche immobile, il corpo racconta. Il respiro si trasforma, lo sguardo si spalanca. Non sei solo. Altri corpi si dispongono per assistere: non spettatori, ma testimoni di qualcosa che deve ancora accadere.

Si spengono le luci. Il tempo abituale si dissolve – routine, scadenze, notifiche scompaiono. Ogni attimo si allunga o si spezza. Quel corpo, prima pesante, comincia a respirare in modo diverso. Il tempo si fa un’eco fatta di brividi, respiri intrecciati, cuori che si allineano con quelli dei danzatori.

A inaugurare è Time takes the time time takes, con cinque performer guidati da Guy Nader, artista libanese, e Maria Campos, danzatrice spagnola. Muovono un pendolo che è più di un battito: è vita che nasce e si sgretola nella ripetizione. Un ciclo umano attraversato da identità che si cercano senza trovare un senso rassicurante. Nel finale, un vortice di corpi in verticale racconta il dramma affascinante dell’esistenza.

Ma qui non serve capire tutto. C’è spazio per perdersi e ritrovarsi, per seguire un respiro, un gesto, una vertigine. Anche quando le figure sembrano dissolversi, le idee continuano a vibrare: è questo il vero Fuori Programma.

Nei giorni seguenti, la programmazione pulsa con nomi e titoli potenti: i performer di Brother to Brother della Compagnia Zappalà entrano da fuori, dal mondo, con dispositivi in bocca che deformano le labbra in un bacio rosso fuoco. Creature ibride, futuristiche e ancestrali, accompagnate da tamburi e piedi scalzi, in uno scambio rituale che dissolve la linea tra chi osserva e chi agisce.

Ogni spettacolo apre un varco di senso, anche quando è oscuro e pulsante: Stuporosa, Redrum, Hope Hunt and the Ascension into Lazarus, Picnic sul ciglio della strada, Veduta Roma, Life in Lycra… una costellazione di creazioni che parlano di tempo, assenza e desiderio, morte e trasformazione. E soprattutto di fragilità che scopre limiti da attraversare.

La danza di Fuori Programma è una dichiarazione: oggi è frammento, incontro, scossa. Non serve spiegazioni, ma vivere l’attraversamento.

Il corpo si fa specchio, accoglie. Qui nasce la possibilità di cambiare, anche solo per pochi istanti. Non c’è finzione, ma un essere che si mostra nudo – e proprio in questa nudità trova forza e resistenza.

Ci sono momenti in cui l’aria si ferma: quando un danzatore cade e nessuno lo raccoglie, eppure la scena vive; quando un movimento si ripete fino a perdere senso e poi lo ritrova nella pura persistenza; quando un dettaglio microscopico riscrive l’aria intorno.

Non c’è solo virtuosismo, ma presenza vera. Non solo bellezza, ma necessità.

Il teatro – con le sue mura ruvide, le sue sale, il cortile – non è un contenitore. È un organismo vivo, un altare laico dove gli esseri si riconoscono senza conoscersi. Ogni passo, ogni gesto, è parte di un rito collettivo che non chiede appartenenza, ma partecipazione. Ai tavolini, tra un bicchiere e una parola, tra i giovani, le storie si intrecciano. Le ferite si raccontano senza voce. Ci si guarda negli occhi. Ogni presenza si alleggerisce un poco.

La danza supera barriere, distanze, lingue. Non dà conforto, ma apre varchi. Il corpo dello spettatore si spalanca, diventa paesaggio, parte di qualcosa di più vasto.

Tra un gesto e l’altro, tra suono e silenzio, accade qualcosa. Il silenzio non è vuoto, è tempo pieno. Un respiro. Un invito a sentire. Il ritmo dei tamburi o delle ossa, il respiro che passa da uno spettatore all’altro. Tutto pulsa. Anche da fermo, il corpo danza gioia.

Quando il festival finisce, non torni a casa come prima. Hai dentro una tensione diversa, una memoria fisica, non mentale. Cammini verso la città, e qualcosa vibra ancora. Fuori Programma non è più uno sfondo: è un organismo instabile, grezzo, vibrante insieme a te.

Fuori Programma di Valentina Marini è una soglia. Non un rifugio, ma un’apertura. Da lì si esce più stanchi, forse, ma connessi. L’essere, anche nel suo limite, diventa vulnerabilità viva.

 

 

📸 Ecco le immagini per rivivere quei momenti. Ph @follakgiuppe

G-66PL6CNJ8R