Gaza non è un altrove. Gaza siamo noi, quando ci lasciamo toccare.

“Gaza is not elsewhere. Gaza is us,
when we allow ourselves to be touched
by Sergio Mario Illuminato”

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DI SERGIO MARIO ILLUMINATO

Ieri, in Piazza San Giovanni a Roma, non era solo il caldo che ci faceva sudare. Era altro. Qualcosa che si insinuava sottopelle, tra le ossa, una stanchezza che non era fisica, ma esistenziale. Ogni passo, ogni sguardo, era come camminare su una ferita che non smette di aprirsi. Eravamo in tanti. Corpi diversi, voci che venivano da vite diverse. Ma nel centro del petto, lo stesso vuoto. Eravamo lì per Gaza. Ma forse, ancora prima, eravamo lì per non diventare ciechi.

I cartelli, le bandiere, i cori – tutto questo c’era. Ma quello che mi porto dentro sono gli occhi. Occhi che sembravano assorbire la luce come un buco nero. Occhi di chi ha smesso di chiedere spiegazioni, ma continua a cercare un contatto.Qualcosa che tenga insieme il mondo mentre si sfalda. Poi, Rula. La sua voce. Che non era voce, era una fenditura. Non parlava, apriva. Faceva scivolare qualcosa dentro ognuno di noi. Non c’era bisogno di alzare il tono, bastava stare. Restare con quel dolore che non si lascia dire.

Quando l’ho abbracciata, non c’era nulla da dire. Il linguaggio si spezza in certi momenti. Rimangono i corpi, l’odore della pelle, le mani che tremano. Piangevamo. Non in modo plateale. Le lacrime scorrevano come una pioggia lenta dentro. Era una lingua muta. Una lingua fatta di tremori, di fragilità, di respiro trattenuto.

Ed è lì che ho sentito una cosa che conosco bene: quel paradosso silenzioso di quando siamo immobili, eppure qualcosa si spalanca dentro. Come al cinema. Restiamo seduti, ma tutto in noi si muove. Il corpo si ferma, il cuore accelera. I muscoli non fanno nulla, ma dentro si scava. Così anche in quella piazza. Gaza non era là. Era tra le costole. Nell’aria pesante. Nelle mani che non sapevano dove posarsi.

Non possiamo più permetterci di guardare da lontano. L’illusione della distanza è la più grande delle colpe. Non ci serve l’empatia retorica, ci serve la presenza. Gaza non è una notizia, è una domanda che ci riguarda. Una domanda che ci chiede: dove sei? Che cosa sei disposto a perdere per restare umano?

6663 giorni. 18 anni e 337 giorni. Da 609 giorni, il mondo ha smesso anche di fingere. Il genocidio è diventato rumore di fondo. Una frequenza troppo bassa per chi ha imparato a convivere con l’indifferenza. Eppure, ogni immagine che ci attraversa non è solo immagine. È un punto di rottura. Un varco.

Ogni bambino sotto le macerie ha un nome che non conosciamo, ma ci appartiene. Ogni madre che urla contro la fame ci mostra qualcosa che non vogliamo vedere: che la nostra sicurezza è fondata sulla distrazione. Che il nostro silenzio pesa quanto una bomba. La politica ha smesso di parlare. O forse parla, ma solo per coprire il rumore del sangue.

Io non posso più tacere. Non come artista, ma come corpo. Come essere umano. L’arte non può più essere distrazione. Non può più raccontare il mondo senza sentire la carne. Se non vibra, se non trema, se non ha paura, non serve. Deve diventare luogo. Ferita. Apertura. Non uno specchio, ma una soglia.

Gaza, anche solo pensata, è un luogo che si restringe. Una grotta, una cripta. Odori troppo forti. Suoni che non si dimenticano. Un buio che non consola. È lì che dobbiamo entrare. Non per pietà. Ma perché in quel buio possiamo forse, ancora, riconoscerci.

Come nella sala cinematografica. Dove restiamo immobili, e intanto qualcosa si lacera. Ci lasciamo penetrare, scardinare. È lì che può nascere uno spazio etico. Uno spazio del sentire. Lo stesso dobbiamo fare adesso. Dischiuderci. Lasciar entrare Gaza come si lascia entrare un lutto. Senza mediazioni. Senza difese.

Non esistono più governi. Non esistono più opposizioni. Esistono corpi. Esistono scelte. Esiste la possibilità – e la responsabilità – di non voltarsi dall’altra parte. Ogni gesto che compiamo, ogni parola che pronunciamo, è una presa di posizione.

Abitare la soglia non è una metafora. È un’urgenza. È restare nel punto in cui il dolore incontra la carne. Dove l’immagine diventa vita. Dove sentire diventa agire. La soglia che abito è nera. Ruvida. È fatta delle macerie che si vedono di sfuggita nei telegiornali. Delle urla che forse entrano nei talk show per giustificare l’esistenza dei media. Ma è anche una soglia da cui si può parlare. Una soglia da cui si può lanciare la voce. Non per vincere. Non per convincere. Ma per restare umani.

Questa è la mia voce. Questo è il mio corpo. Questo è il mio appello. Se può servire, usatelo. Se può fare male, ascoltatelo. Se può ricordare qualcosa che avevate dimenticato, lasciatelo entrare.

Gaza non è un altrove. Gaza siamo noi, quando ci lasciamo toccare.

 

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