CARLO LIZZANI racconta gli anni ’90

DI CARLO LIZZANI, regista

Roma, il Cinema ed Io… (appunti di lavoro)  a  cura di Sergio Illuminato, edito nel 1993 dal Quotidiano Paese Sera. Interviste alle principali personalità del mondo del cinema che restituiscono uno spaccato della società degli anni ’90.

Sono romano, la mia famiglia lo è da metà del ‘600, il mio legame ombelicale è con la Roma in cui sono nato e cresciuto: via dei Coronari, piazza Navona, via Zanardelli, Palazzo Braschi, allora sede dell’organizzazione giovanile fascista.

Tra le attività di Palazzo Braschi esisteva il cine-guff, e lì cominciai a capire un po’ di cinema. Il destino ha voluto che la mia biografia si sia, fino ad oggi, consumata nell’arco di un chilometro quadrato.

Agli inizi volevo fare lo scrittore, poi da appassionato frequentatore di cinema cominciai a lavorare come critico e come soggettista e sceneggiatore, non pensavo alla regia perché mi sembrava che fosse un lavoro particolarmente duro quasi da atleta, e non ritenevo di avere quell’assetto fisico indispensabile per potere affrontare le fatiche del set.

Invece facendo l’aiuto regista con De Santis, Rossellini, Lattuada, mi scoprii abbastanza atletico per poter fare il regista.

Tornando a Roma ritengo una sua peculiarità il non essere stata la capitale di uno stato, bensì una caput mundi; il che è una forza, ma anche un pericolo. A Roma tutto è inconsciamente misurato secondo parametri diversi dalle altre grandi capitali della rivoluzione borghese. La sua diversa unità di misura ha portato il cittadino romano a considerare tutto effimero, transe unte, tutto da misurare su archi lunghissimi di tempo; per cui è stato facile cadere nella pigrizia, nell’indolenza, nel menefreghismo o nel fatalismo.

I prototipi cinematografici del romano sono stati Sordi e la Magnani; in Sordi ha visto rappresentata la consapevolezza del proprio cinismo, Sordi è il cuore di Roma, della piccola borghesia, dell’arrampicatore, dell’affarista; la Magnani ne ha rappresentato invece l’aspetto sfrontato, aggressivo in senso buono, schietto come si può permettere il cittadino di una grande città millenaria.

Da una parte il tema dell’intrigo che affonda le sue radici in quegli umori che Roma ha alimentato fin da quando i clientes stavano attorno ai patrizi, formando quella piccola classe media degli intrallazzatori che fanno tanto somigliare l’antica Urbe alla Roma dei palazzinari; dall’altra parte la Magnani, che incarna la capacità popolare romana di sopravvivere attraverso secoli di storia, decadenze, glorie.

E Fabrizi forse ha rappresentato la via di mezzo tra la maschera di Sordi e quella della Magnani. In lui c’è furberia, ma anche slancio eroico.

Quanto il cinema incida sul sociale è un problema che ci siamo posti io e tanti altri registi fin dall’inizio del nostro lavoro. In particolare, per chi, come me, ha cominciato ad occuparsene nell’immediato dopoguerra trovandosi inserito nel neorealismo, era quasi pacifico pensare che il nostro mestiere avrebbe dovuto e avrebbe potuto influire profondamente sul sociale, aiutare lo sviluppo della democrazia.

E il cinema ci sembrava che potesse essere lo strumento, l’arma per contribuire alla trasformazione della società. Nel tempo la situazione è cambiata perché il mezzo, il media che più ha contribuito non dico a cambiare la società, ma comunque ad influire sul costume di vita civile, è stato la televisione.

Ma penso che il cinema svolga comunque una funzione importante, oltretutto continua ad avere un suo pubblico larghissimo, anzi ingrandito proprio dal mezzo televisivo; un film, dopo due, quattro, otto anni arriva al pubblico dalla televisione, e la maggior durata del cinema attraverso la TV è un fenomeno di grande importanza che aiuta il cinema.

Già una trentina d’anni fa scrissi un saggio sulla trasformazione del linguaggio per immagini, dando allora molta importanza al linguaggio televisivo. Mi sono occupato e continuo ad occuparmi di televisione, faccio molto documentari, in particolare ho diretto, insieme a Portoghesi ed Argan una collana audiovisiva che si chiama “Roma Imago Urbis”. Si tratta di quindici film di un’ora, quindici monografie filmate su aspetti di Roma antica: le acque, i circhi, i teatri, la religione, aspetti storici, culturali, urbanistici della civiltà romana.

Dirigo poi per là RCS una collana di videocassette e videodischi sui Beni Culturali italiani; tutte queste attività trovano spazio prevalentemente se non esclusivamente in televisione, è chiaro quindi che ritengo un mio campo anche quello televisivo.
Le speranze che ripongo nel mio lavoro? Se dovessi stare ai dati che forniscono le statistiche poche; come è noto in Italia solo lo 0,2 % del bilancio nazionale è destinato alla cultura, dieci volte meno che in Francia dove se ne destina il 2%, non è molto, ma è già dieci volte di più.

Il cinema sta aspettando ancora una legge da circa trent’anni, ormai vecchia, la legge Mammì è invecchiata a sua volta, il quadro legislativo ed economico di mercato in cui si sviluppa l’opera del cinema non è roseo però è indubbio che nel mondo il linguaggio audiovisivo è in espansione, ci sono strozzature, momenti di crisi, ma io credo che nel futuro sempre più il linguaggio audiovisivo sarà usato come una volta si usava e come ancora si usa il linguaggio scritto.

Vedo ancora molte cecità, mentre nell’editoria ed altre forme d’arte o di comunicazione si lavora pensando ad una varietà di prodotti, ciò non avviene nel campo dell’audiovisivo, o avviene molto poco. Credo ne siano responsabili anche i giornali, che pubblicano a grandi titoli chi ha fatto il maggior audience senza pensare che è importante anche quella fascia di pubblico costituita dagli ottocentomila utenti che seguono “la rubrica di un libro”; è di per sé una fascia di pubblico oceanico, se si pensa a quante conferenze simultanee ci vorrebbero per raggiungere lo stesso numero di persone in una sola serata. L’auditel è una gara rozza, selvaggia, primitiva, non degna di un paese civile.

Tornando al cinema, e al cinema di oggi, a proposito dei nuovi registi posso dire che approvo il loro interesse per la realtà, però non vedo una rivoluzione del linguaggio che fu tipica dell’autentico neorealismo, che non fu solo un cinema di contenuti o di semplice verifica della realtà, ma implicò una trasformazione di carattere formale molto profonda nel linguaggio cinematografico, che influì sul cinema mondiale.

Non vedo nel nuovo cinema una trasformazione o un rinnovamento profondo del linguaggio cinematografico e frattanto il pubblico assomiglia sempre più a quello dei festival, è un pubblico di eventi, che non va più come accadeva una volta per abitudine al cinema. Certo va detto che i consumi si sono dilatati, il denaro viene speso per tante altre attività, il pubblico cinematografico è un pubblico mirato che va a vedere certi film e non altri, è un pubblico che sceglie il film; quindi, in un certo senso è migliorato, è cresciuto e forse oggi sarebbe meglio dire che il mercato è indietro, tarda ad adeguarsi alle nuove tendenze.

Recentemente ho visto di Roma aspetti che mi hanno fatto paura: il vuoto così tipico di certi quartieri enormi, agghiaccianti, dove ci si incontra veramente poco. Questa Roma non mi piace, ma mi interessa dal punto di vista professionale, e trovo che sia possibile girare scene all’altezza dei thriller americani, immagini alla Blade Runner.

Per ciò che riguarda me e il mio rapporto col cinema posso dire che ho un sogno: fare un film su un film; cioè su Roma città aperta: una riflessione su come si facevano i film in un periodo in cui il cinema italiano sembrava fosse morto, gli studi di Cinecittà occupati dagli sfollati: quando soprattutto sembrava che Roma, una delle capitali della cinematografia mondiale, fosse stata espropriata dal cinema americano.

È un sogno che coltivo da molti anni, un sogno difficile da realizzare. Un film del genere potrebbe essere un omaggio a Roma e al suo cinema.

G-66PL6CNJ8R