Sono appena uscito da Sinners e ho litigato per difendere un Film

DI SERGIO MARIO ILLUMINATO

Madonna, quanto tempo che non litigavo così per difendere un film. Sto ancora qui fuori dal cinema, perché ho bisogno di metabolizzare quello che è appena successo là dentro. Eravamo in tre, avevamo programmato di andare a cena insieme, e siamo rimasti in due.

Il terzo, che conosco da molti anni e che fino a stasera consideravo uno che di cinema se ne intende – se n’è andato incazzato nero dicendo “Ma che cazzo, non mi aspettavo un film di vampiri, questo è un film pretenzioso ignorato dai critici e dal botteghino”. Ignorato dai critici? 100% su Rotten Tomatoes, 316 milioni di dollari globali! Ma no, non potevo crederci!

E noi qui rimasti in due, mentre lui se ne andava senza più rivolgerci la parola. Un film di vampiri. Ma come ha fatto a non capire che quello non era esattamente il punto?

Sinners mi ha salvato dal cinismo

Sinners di Ryan Coogler mi ha fatto una cosa che non mi succedeva più da anni. Mi ha ricordato perché ho iniziato a studiare cinema, perché mi sono innamorato del cinema quando ero ragazzino e mi infilavo dentro la sala dall’uscita di sicurezza ogni domenica pomeriggio. Quella roba che pensavo fosse morta, sepolta sotto tonnellate di film fatti col pilota automatico e piattaforme streaming che ti sputano “contenuti” come fossero hamburger del McDonald’s.

Il momento in cui tutto è cambiato

C’è stato un attimo preciso – Sammie “Preacher Boy” Moore ha iniziato a suonare quella chitarra resonator Dobro Cyclops del 1932, e improvvisamente il juke joint si è riempito di fantasmi che danzavano. Non sto parlando di effetti speciali da Marvel – sto parlando di pura magia cinematografica, quella roba che ti entra nelle ossa e ti fa dimenticare che stai guardando attori davanti a una telecamera.

Per un momento ho smesso di essere uno che vuole fare cinema, ho smesso di prendere appunti mentali sui movimenti di macchina, di analizzare la fotografia di Autumn Durald Arkapaw. Sono diventato quello che dovrei essere sempre: uno spettatore che si lascia trascinare dove il regista vuole portarlo. E cazzo, quanto mi era mancato.

Il tempo si è piegato su sé stesso come una fisarmonica. Presente, passato e futuro che si fondono in una sinfonia dell’immersione che nessuna piattaforma streaming potrà mai, e dico mai, replicare nella frammentazione del mio salotto di casa, con le notifiche del telefono che squillano ogni due minuti.

3’18″ secondi di piano sequenza che entrerà nella storia del cinema.

La sala che respira come un organismo

Seduto in quella poltrona IMAX, circondato da duecento sconosciuti, ho capito cosa abbiamo perso in questi anni di Netflix e Prime Video. Non è solo questione di schermo grande – è la dimensione collettiva, rituale del cinema. È essere parte di un corpo unico che sussulta, ride, trattiene il respiro insieme.

Quando i vampiri di Jack O’Connell hanno iniziato la loro strage nel juke joint, tutta la sala si è contratta come un muscolo. Ho sentito le due ragazze alla mia destra abbracciarsi, l’uomo dietro di me spostarsi nervoso sulla poltrona. Eravamo tutti prigionieri della stessa tensione, tutti parte dello stesso organismo pulsante che ha reso il cinema, per oltre un secolo, la forma d’arte più potente mai inventata.

E io che pensavo che questa roba fosse morta, uccisa dall’algoritmo di TikTok e dalle notifiche che non ti lasciano mai in pace. 

Michael B. Jordan e la verità del doppio

Vedere Jordan nei panni di Smoke e Stack è stato come assistere a una lezione magistrale di cinema puro. Non me ne frega niente di quanto siano stati superlativi tecnicamente a fargli passare quella sigaretta da un gemello all’altro – quello che mi ha sconvolto è stata la sua capacità di incarnare la scissione dell’anima contemporanea.

In quei due personaggi ho visto me stesso, la mia generazione, tutti noi divisi tra l’autenticità che cerchiamo e le compromissioni che accettiamo ogni giorno. Smoke e Stack sono “la versione corrotta di un poliziotto buono e di uno cattivo”, come ha scritto Owen Gleiberman, ma sono anche le due anime del cinema di oggi: da una parte l’esigenza di intrattenere il pubblico globalizzato, dall’altra il bisogno disperato di mantenere una visione autoriale che l’algoritmo sta uccidendo.

Jordan non recita – incarna questa contraddizione con una verità che ti spacca il cuore.

Pellicola vs digitale: la guerra estetica

Coogler ha girato in Ultra Panavision 70mm e si vede. Quelle immagini hanno una tattilità, una grana organica che ti entra negli occhi come una carezza. Mentre guardavo i campi di cotone del Mississippi, l’umidità appiccicosa delle notti del Sud, la rugosità del legno della vecchia segheria trasformata in juke joint, ho capito che non è nostalgia tecnica – è una dichiarazione di guerra alla standardizzazione digitale.

In un’epoca in cui tutto viene girato in digitale, processato da software che uniformano l’estetica, e poi distribuito su piattaforme che comprimono la qualità per ottimizzare la banda, Coogler fa l’esatto contrario. Ogni fotogramma è un atto di resistenza contro l’omologazione.

Le tonalità calde della fotografia di Durald Arkapaw non sono “belle da vedere” – sono un ecosistema sensoriale che ti avvolge come un abbraccio febbrile. Le scene notturne sono costruite come trappole percettive: ogni ombra nasconde una minaccia, ogni nota della colonna sonora di Ludwig Göransson diventa un battito cardiaco che sincronizza tutta la sala.

La musica come portale nel tempo

Se c’è una cosa che mi ha fatto venire i brividi di Sinners, è il modo in cui Göransson ha concepito la musica. Non ha semplicemente composto una colonna sonora – ha creato un ponte temporale fatto di blues, gospel, folk irlandese e jazz che permette ai personaggi di dialogare con i fantasmi del passato e del futuro.

La sequenza centrale, quando il juke joint prende vita nella sua prima e ultima notte di gloria, è forse il momento più puro di “cinema totale” che ho visto negli ultimi anni. Non c’è spettacolo hollywoodiano – non servono esplosioni o effetti speciali miliardari. È qualcosa di più sottile e devastante: la materializzazione visiva del concetto di “memoria collettiva” attraverso il linguaggio cinematografico.

Quando Sammie suona e la sua musica evoca musicisti e danzatori di diverse epoche, Coogler non sta mostrando una fantasia – sta ricostruendo cinematograficamente il modo in cui la cultura si trasmette, si stratifica, si rinnova. È una sequenza che funziona solo nell’immersione totale della sala buia, dove il suono ti avvolge il corpo e le immagini diventano un’esperienza sinestetica.

Che dire di una scena in cui l’immagine di un’auto che scivola sull’asfalto, tessendo un dialogo carico di riflessioni, viene squarciata da un contrappunto sonoro che sovrappone una dimensione temporale? Attraverso un flashback acustico, la colonna sonora si trasfigura: i rumori del presente sfumano in grida soffocate, catene striscianti e il sussurro del vento tra i campi di cotone, evocando con crudo realismo un passato di oppressione. È un ponte sonoro tra epoche, dove la banalità del viaggio in macchina si scontra con l’eco lacerante di storie sepolte, trasformando l’asfalto in una linea del tempo che porta diritto al cuore oscuro della memoria.

Vampiri come metafora della nostra epoca

I vampiri di Sinners non sono creature soprannaturali generiche – sono la rappresentazione fisica di quelle forze che “succhiano” l’essenza vitale dalla creatività, appropriandosene senza comprenderla. Ma guardando il film, ho capito che di questi vampiri facciamo parte anche noi se non ci ribelliamo: l’industria dell’intrattenimento digitale che ha “succhiato” il sangue dal rituale collettivo del cinema.

Le piattaforme streaming hanno trasformato i film in “contenuti” da consumare in solitudine, privandoli di quella dimensione comunitaria che per oltre un secolo ha definito l’essenza del medium. La resistenza che i personaggi oppongono all’invasione vampirica diventa la resistenza culturale contro le forze che vogliono omogeneizzare, standardizzare, rendere tutto “più accessibile” ma, alla fine, impoverirlo.

Quando Jack O’Connell e la sua banda iniziano la carneficina, ogni morte non è solo spettacolo – è la materializzazione visiva di secoli di appropriazione culturale, di violenza sistemica, di trauma collettivo che le piattaforme streaming spesso edulcorano in “contenuto educativo” facilmente digeribile.

Il montaggio che sfida l’era dello streaming

Michael P. Shawver ha costruito un ritmo che va controcorrente rispetto alle convenzioni narrative dell’era Netflix. Dove le serie TV e i film pensati per la fruizione domestica accelerano per mantenere l’attenzione di spettatori potenzialmente distratti, Sinners si concede il lusso della lentezza.

Il primo atto, dedicato interamente alla preparazione dell’inaugurazione del juke joint, sarebbe considerato “troppo lento” dagli standard contemporanei. Ma è proprio in questa apparente lentezza che risiede la forza rivoluzionaria del film: ti obbliga a entrare nel tempo dei personaggi, a conoscerli intimamente prima che la violenza soprannaturale irrompa nella narrazione.

Quando finalmente i vampiri fanno la loro comparsa, l’impatto emotivo è devastante proprio perché hai avuto il tempo di affezionarti a quel mondo che ora viene minacciato. È una lezione di storytelling che va controcorrente rispetto alla logica del “colpo di scena immediato” che domina il cinema commerciale.

L’horror come linguaggio di verità

La trasformazione da dramma storico a film horror non è un cambio di genere opportunistico – è l’evoluzione naturale di un discorso sulla violenza che attraversa la storia americana, esattamente come la stiamo vivendo nell’era trumpiana. L’horror diventa il linguaggio più onesto per parlare del trauma collettivo, quello stesso trauma che le piattaforme spesso trasformano in contenuto edulcorato.

Coogler utilizza il codice del film di genere – effetti pratici, tensione crescente, violenza esplicita – per dire verità che il realismo sociale non riuscirebbe a comunicare con la stessa efficacia. La sequenza “carpenteriana” che trasforma il film in un western d’assedio è magistrale perché non abbandona mai la specificità storica per inseguire l’adrenalina fine a sé stessa.

Il successo come atto rivoluzionario

316 milioni di dollari globali con un budget di 60 milioni, 100% su Rotten Tomatoes. Non sono solo numeri – sono la dimostrazione pratica che il pubblico ha fame di cinema immersivo, di esperienze che possano essere vissute solo nella sala buia.

Dal 2019, da Us di Jordan Peele, un film originale non otteneva un simile successo nel weekend d’apertura. Non è una coincidenza. Come Sinners, anche il film di Peele rappresentava una forma di “cinema di resistenza”: horror d’autore che utilizzava il linguaggio di genere per esplorare tematiche sociali complesse, realizzato con una visione autoriale forte.

La reazione “di sospetto” delle riviste di settore rivela quanto l’industria si sia abituata all’idea che il cinema d’autore debba essere “di nicchia”, mentre il successo commerciale debba basarsi su formule preesistenti e consolidate.

Cogliere la lezione di potere

Ryan Coogler rappresenta qualcosa di unico: un regista che è riuscito a utilizzare il successo dei blockbuster Marvel per conquistare il potere creativo necessario a realizzare la propria visione. La sua traiettoria – da Fruitvale Station attraverso Creed e Black Panther fino a Sinners – dimostra che è possibile navigare nel sistema hollywoodiano senza perdere l’identità autoriale.

Sinners è il coronamento di questa strategia: un film completamente originale che riesce a essere contemporaneamente cinema d’autore e intrattenimento popolare. È la dimostrazione che la dicotomia tra “cinema artistico” e “cinema commerciale” è spesso falsa, costruita da un’industria che ha perso fiducia nella capacità del pubblico di apprezzare complessità narrativa.

La litigata che doveva succedere

È stato quando siamo usciti dalla sala che è esploso tutto. Il terzo era già uscito durante i titoli di coda, e appena eravamo in strada ha iniziato: “Ma che roba era? Io non volevo vedere un film di vampiri. E poi era lentissimo.

E lì ho perso la pazienza. Gli ho spiegato che quello che aveva appena visto era cinema puro, che Coogler aveva creato un’esperienza irripetibile, che ogni fotogramma era un atto di resistenza contro l’omologazione digitale. Che la lentezza era voluta, che la costruzione dei personaggi era necessaria, che i vampiri erano una metafora dell’appropriazione culturale.

La rivelazione (e la solitudine)

Uscendo da quella sala IMAX, con lo sguardo ancora perso nel buio della memoria, ho capito una cosa fondamentale: il cinema non è morto. Sta solo aspettando che qualcuno abbia il coraggio di risvegliarlo dal sonno dell’omologazione.

Sinners è la dimostrazione che quando si offre al pubblico un’esperienza cinematografica autentica, immersiva, irriducibile alla fruizione domestica, la risposta è entusiastica. La “fame di cinema” non è nostalgia – è il riconoscimento di un bisogno antropologico fondamentale che nessuna tecnologia domestica può soddisfare.

Ma è anche la dimostrazione di quanto siamo diventati divisi. Da una parte ci sono quelli che hanno ancora fame di cinema vero, dall’altra quelli che vogliono solo intrattenimento predigerito. 

L’immersione cinematografica non è questione tecnica: è rituale, condivisione, esperienza collettiva. È il brivido che attraversa una sala buia quando tutti gli spettatori trattengono il respiro insieme, è la risata che si propaga come un’onda sonora, è il silenzio carico di tensione che unisce sconosciuti in un’unica emozione condivisa.

Il futuro che vogliamo (e quello che ci meritiamo)

Sinners ci ricorda che la diversità non è solo una questione estetica – è una necessità ontologica. Il cinema ha bisogno di voci diverse, di visioni personali, di storie che possano essere raccontate solo attraverso il linguaggio cinematografico. Ha bisogno di registi che abbiano il coraggio di attraversare la soglia, portando il pubblico verso esperienze irripetibili.

Ma ha anche bisogno di spettatori che abbiano il coraggio di attraversare quella soglia insieme al regista. Quanta gente esce da Sinners lamentandosi che “era troppo lento” o che “i vampiri non si vedevano bene”?

La lezione è semplice e rivoluzionaria: il cinema non è morto neanche nella futuribile era dell’intelligenza artificiale, sta solo aspettando che qualcuno abbia il coraggio di risvegliarlo. E quando questo risveglio accade, il pubblico risponde con l’entusiasmo di chi ritrova qualcosa che pensava perduto per sempre.

Ma non tutto il pubblico. E questa è la parte che fa più male.

L’amaro in bocca

Stasera Ryan Coogler mi ha restituito la magia irriproducibile dell’immersione totale nell’arte delle immagini in movimento. E adesso sto ancora con l’amico superstite qui all’uscita del cinema, con il corpo che ha capito tutto senza che dovessi scrivere nessuna di queste parole.

Con un amico che consideravo “colto di cinema” che tornerà a casa a guardarsi chissà che, convinto di aver sprecato 10 euro per vedere “un film pretenzioso dei vampiri”. E con la consapevolezza amara che forse siamo rimasti in pochi a credere ancora nella magia del cinema.

Ma almeno siamo rimasti in due a cena, a parlare di ogni millimetrica scena, di ogni dettaglio, di come quel film ci abbia cambiati. E forse è questo il punto: il cinema vero crea comunità, ma comunità sempre più piccole, sempre più rare.

Funziona così quando il cinema decide di prenderti sul serio, quando ti offre quello per cui è nato – l’esperienza totalizzante, il rituale collettivo, l’arte che pretende e restituisce attenzione assoluta – tutto il resto diventa rumore di fondo.

E io non voglio più accontentarmi del rumore di fondo. Anche se questo significa litigare con gli amici, anche se questo significa restare in minoranza, anche se questo significa ammettere che forse il pubblico che amiamo non esiste più.

O forse esiste ancora, ma è nascosto, disperso, in attesa che qualcuno come Coogler abbia il coraggio di richiamarlo a raccolta. E quando succede, quando il richiamo arriva, noi ci siamo. Anche se siamo sempre meno.

3’18″ secondi di piano sequenza che entrerà nella storia del cinema

Directed by Ryan Coogler
Written by Ryan Coogler
Produced by
Starring
Cinematography Autumn Durald Arkapaw
Edited by Michael P. Shawver
Music by Ludwig Göransson
Production
company
Distributed by Warner Bros. Pictures
Release date
  • April 18, 2025
Running time
138 minutes
Country United States
Language English
Budget $90–100 million
Box office $329 million
G-66PL6CNJ8R