Non c’è più posto per Cristo

DI ROBERTA MELASECCA

Nella società del perfetto a tutti i costi e delle massime prestazioni in tutti i campi – dal lavoro, alla cura della persona, alla scuola e persino all’amore – non c’è posto per la vulnerabilità, neanche per quell’uomo che rappresenta oggi Cristo in terra, quel Cristo che è invece il vulnerabile per eccellenza, morto sulla croce, vilipendiato, trafitto, fallito, sconfitto.

24 marzo, domenica delle Palme 2024. Varie testate riportano che il Papa, visibilmente affaticato, non ha letto l’omelia rimanendo invece in silenzio per alcuni minuti. Il primo Papa in assoluto a non leggere l’omelia di questa giornata che preannuncia la Pasqua. Eppure non è la prima volta che Francesco mostra la sua vulnerabilità, così come ne ha dato dimostrazione Giovanni Paolo II verso la fine della sua vita e del suo papato. Jorge Mario Bergoglio e Karol Wojtyła non hanno mai nascosto la loro stessa natura vulnerabile in quanto uomini e non dei. E dopotutto, nel Vangelo secondo Giovanni (vv. 23.28), è scritto che è proprio sulla croce che vedremo la gloria di Gesù e del Padre: non durante la Resurrezione ma nel luogo della sconfitta e del massimo fallimento di Dio.

Quindi, a questo punto, ci domandiamo: perchè, conoscendo su quali dogmi e principi e narrazioni si basi la religione cristiana cattolica, ci continuiamo a scandalizzare e a meravigliare se un uomo dimostra al mondo intero il suo essere finito e limitato? Perchè desidereremmo che il Capo della Chiesa non fosse coerente con la scelta della vita evangelica e mostrasse invece la potenza e la gloria di un Dio che mai si è dichiarato tale?

Il 1° marzo, nel discorso ai partecipanti al convegno della Cattedra dell’Accoglienza dal tema ‘Vulnerabilità e Comunità tra accoglienza e inclusione’, Papa Francesco afferma che «Gesù ha passato la maggior parte del suo ministero pubblico, specialmente in Galilea, a contatto con i poveri e i malati di ogni genere. Questo ci dice che per noi la vulnerabilità non può essere un tema “politicamente corretto”, o una mera organizzazione di pratiche, per quanto buone. Lo dico perché purtroppo il rischio c’è, è sempre in agguato, malgrado tutta la buona volontà. Specialmente nelle realtà più grandi e strutturate, ma anche in quelle piccole, la vulnerabilità può diventare una categoria, le persone individui senza volto, il servizio una “prestazione” e così via»

Francesco offre una visione interessante e assolutamente attuale del concetto di vulnerabilità: caratteristica non più insita e costituiva dell’essere umano ma una categoria del politicamente corretto coincidente con la natura delle classi svantaggiate. Ecco che, dunque, la vulnerabilità è un elemento da contrastare, un problema da risolvere, una visione che non può appartenere ad una società in cui tutto è tensione verso l’assoluto, dove ogni piccolo o grande fallimento diventa denigrazione della vita e della persona. E tutto ciò si può ampiamente osservare nel mondo della scuola, dove il voto e il giudizio diventano sempre più determinanti a discapito della conoscenza e del confronto, del sapere e dell’educazione. Qualche settimana fa chiesi a mio figlio, un ragazzo di 15 anni che comunque mantiene una certa curiosità per le cose del mondo: «Se a scuola non esistessero i voti, tu e i tuoi compagni studiereste comunque?». Giustamente e naturalmente lui mi ha risposto di no. Non ho giudicato affatto la sua risposta e l’ho invece trovata aderente al sistema in cui viviamo. Ma contemporaneamente è sorta in me una piena coscienza di responsabilità, soprattutto verso queste nuove generazioni, verso i figli e le figlie che saranno gli uomini e le donne di domani.

All’interno di questo panorama, forse lo sport può venire in nostro aiuto. Michael Jordan, uno dei più noti giocatori di basket, ha in alcune interviste dichiarato: «Ho sbagliato più di 9000 tiri nella mia carriera. Ho perso quasi 300 partite. E 26 volte mi hanno dato la fiducia per fare il tiro vincente dell’ultimo secondo e ho sbagliato. Ho fallito più e più e più volte nella mia vita. È per questo che ho avuto successo». I termini successo e fallimento sono, dunque, la stessa faccia della stessa medaglia, ma più che parlare allora di successo potremmo introdurre un altro termine, o meglio un altro concetto: percorrere la propria vita avendo la piena coscienza di quello che siamo e di quello che ci rende felici, nell’assoluta consapevolezza dei nostri limiti, delle nostre debolezze, delle nostre fortezze, di quello che coincide solo e solamente con ognuno di noi, esseri unici e irripetibili sbarcati su questo mondo per un disegno che solo pian piano comprendiamo.

Ma quella della felicità è un altro capitolo. Ci penseremo domani.

À bientôt.

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